XII
D’Alema, Amato, Rutelli…
E D’Alema andò alla guerra
Massimo D’Alema gestì da statista la guerra del Kosovo. Fece quel che doveva fare: mandò i nostri aerei sotto le bandiere della Nato (non sotto quelle dell’Onu, che non diede mai il suo assenso); bombardò le postazioni antiaeree di Milošević quando ce lo chiesero gli alleati, perché gli americani potessero spazzare via senza problemi le basi strategiche serbe. (Il suo braccio destro, Marco Minniti, per giustificare i bombardamenti inventò una formula morotea: «difesa attiva».) Impartì l’ordine di bombardare senza preavvertire il Parlamento e neppure gli alleati di governo. Armando Cossutta lo apprese dal ministro della Difesa Carlo Scognamiglio durante una puntata di «Porta a porta»; protestò, ma si guardò bene dall’aprire una crisi di governo. A guerra finita, a una mia domanda sulle piccole burrasche che comunque si verificarono all’interno della maggioranza D’Alema rispose da vero premier: «Ho detto con chiarezza ai membri dell’esecutivo: devo assumermi delle responsabilità e non posso essere sottoposto a un controllo quotidiano. Alla fine, se il mio comportamento non vi sarà piaciuto, mi manderete via».
La guerra contro la Serbia iniziò la sera del 24 marzo 1999 e mise fine (si fa per dire) a una controversia secolare. I serbi non volevano rinunciare per nessuna ragione al Kosovo, che ritenevano la culla della loro nazione dal 1389, quando vi subirono una sconfitta per mano dei turchi, che vi si installarono per cinque secoli. Gli albanesi, d’altra parte, consideravano il Kosovo cosa loro: allo scoppio del conflitto, su 2 milioni di abitanti, 1.800.000 erano albanesi e 200.000 serbi. I nazionalisti albanesi sognavano la creazione di una Grande Albania, i serbi puntavano alla Grande Serbia. Tito, l’unico in grado di tenere a bada popolazioni che sembravano non desiderare altro che scannarsi a vicenda, aveva concesso ai kosovari una larghissima autonomia. Milošević gliela tolse.
All’inizio del 1999 la conferenza internazionale di Rambouillet, località alle porte di Parigi, decise che gli albanesi avrebbero mantenuto la loro autonomia all’interno della Federazione iugoslava e che la zona sarebbe stata smilitarizzata. Miloševic non accettò queste risoluzioni e cominciò il massacro degli albanesi. Di qui l’intervento della Nato, sostenuto in Italia anche dal Polo, che aprì ancora una volta il suo ombrello protettivo sul governo di centrosinistra. Cossutta aveva il cuore più a Belgrado (dove si recò in missione) che a Roma. Informando il presidente del Consiglio di ogni suo passo, anche Bossi andò da Milošević: avrebbe pagato questo errore di lì a poco con un tonfo alle elezioni europee.
La gestione del conflitto fu totalmente accentrata a palazzo Chigi, dove Minniti teneva i generali a rapporto. Titolare della Difesa, come detto, era il povero Scognamiglio, che minacciò le dimissioni chissà quante volte, sentendosi costantemente scavalcato. Cossiga – Scognamiglio era un suo uomo – ha sempre affermato che l’approdo del «comunista» D’Alema a palazzo Chigi era avvenuto con il pieno consenso degli americani, dietro l’assicurazione preventiva che, durante l’annunciata guerra del Kosovo, l’Italia non si sarebbe tirata indietro. E, in effetti, il comportamento del nostro governo fu ineccepibile. Quando domandai all’allora premier da quante manifestazioni si sarebbe dovuto difendere Berlusconi se si fosse trovato al suo posto in circostanze analoghe, «Non da quelle del mio partito» mi rispose. Era una piccola, grande bugia: se fosse stato all’opposizione, D’Alema avrebbe bombardato la maggioranza. Stando al governo, si conquistò – giustamente e abilmente – sul campo la legittimazione internazionale che gli serviva, spingendosi assai più avanti del suo partito.
I missili lanciati su Belgrado, fra l’altro, erano del democratico Clinton e del laburista Blair, ma è verosimile che le cose non sarebbero cambiate se alla Casa Bianca ci fosse stato Bush. Come vedremo più avanti, la guerra in Iraq del 2003 avvenne in condizioni diverse. Tuttavia, quando nella primavera del 2004 dissi a Piero Fassino che, se loro fossero stati al governo, i nostri soldati sarebbero andati lo stesso a Nassiriya, lui onestamente non lo escluse affatto, pur se alle condizioni che vedremo in seguito. Il conflitto serbo-albanese servì a D’Alema per mutare in modo radicale il rapporto dei Ds con le nostre forze armate, che, durante e dopo la guerra, si comportarono in modo irreprensibile. Leonardo Tricarico, il comandante delle forze aeree Nato sul campo, diventò il consigliere militare di D’Alema, incarico che mantenne con Amato e Berlusconi. Nel 2004 è stato nominato capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.
Prodi in Europa. La vendetta dell’Asinello
Romano Prodi era convinto di essere rimasto vittima di un complotto di D’Alema e Marini, e decise di farla pagare a entrambi fondando un nuovo partito il 27 febbraio 1999, un sabato. Sia il nome (i Democratici) sia il simbolo (un asinello) richiamavano direttamente il Partito democratico americano di Bill Clinton. Per far nascere il governo D’Alema, Cossiga aveva preteso lo sradicamento dell’Ulivo. Prodi precisò sin dall’inizio che l’asinello avrebbe pascolato solo tra ulivi giganteschi, e il suo movimento chiarì subito la sua strategia trasversale. Con il Professore si schierarono Di Pietro (ottimo collettore di voti, seppure ideologicamente ermafrodito) e i sindaci di Roma (Rutelli), Venezia (Cacciari) e Catania (Bianco). A quel punto D’Alema capì che, se non fosse corso ai ripari, avrebbe trovato ogni mattina fuori dell’uscio di palazzo Chigi il fantasma di Banco. Fino a morirne, come accadde a Macbeth.
I ripari furono la nomina di Prodi a presidente della Commissione europea di Bruxelles. Il 1° marzo il Professore era stato candidato alla carica da Tony Blair, ma aveva rifiutato, non fidandosi ormai di nessuno. Se non ci fosse stata la guerra del Kosovo, l’incarico sarebbe andato allo spagnolo Javier Solana, ma in quel momento era impensabile sottrarre alla Nato il segretario generale, e d’altra parte la crisi della Commissione uscente, presieduta da Jacques Santer, richiedeva una soluzione immediata che, com’era evidente, doveva passare per la cancelleria tedesca. Fu allora che D’Alema incassò un credito maturato nei confronti del cancelliere Schroeder.
Qualche mese prima era giunto in Italia Abdullah Ocalan, leader del movimento rivoluzionario curdo Pkk, sul quale pendeva un mandato di cattura internazionale per terrorismo spiccato dalla Germania. D’Alema offrì dunque Ocalan a Schroeder, immaginando di farlo felice, ma il cancelliere rispose picche: un conto è spiccare i mandati di cattura, un altro eseguirli. Se mi porto Ocalan in casa, spiegò Schroeder, fra turchi e curdi qui scoppia una guerra civile. Così il premier italiano rimase con il cerino acceso in mano. Il ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, il cui partito (i Comunisti italiani) non era affatto estraneo all’arrivo di Ocalan, non aveva alcuna intenzione di chiederne il processo, anche perché l’Italia correva il rischio di innescare rappresaglie terroristiche per un affare che non era suo. Così il capo curdo, al quale soltanto un anno dopo il tribunale avrebbe riconosciuto il diritto all’asilo politico, fu rispedito in Russia, da dove era venuto. I russi lo consegnarono ai turchi, che non ebbero il coraggio di eseguire la condanna a morte. E a questo punto D’Alema mise la cambiale sul tavolo di Schroeder, incassando il via libera per la presidenza della Commissione europea a Prodi.
Il primo ministro non agì così esclusivamente nell’interesse nazionale. Sapeva che alle imminenti elezioni europee un Asinello cavalcato da un Prodi furioso rischiava di investire pesantemente la fragile coalizione del governo Cossiga-Cossutta. Infatti, i Democratici, senza Prodi, incassarono il 7,7 per cento; insieme a lui, avrebbero certamente superato il 10, con tutte le conseguenze del caso. Al voto del 13 giugno, i popolari crollarono al 4,2 per cento (accusarono più di tutti la concorrenza del nuovo partito) e Rifondazione al 4,3 per l’arrivo dei Comunisti italiani di Cossutta (2 per cento). I Ds si fermarono al 17,3, con un distacco clamoroso di 8 punti da Forza Italia, tornato il primo partito con il 25,2 per cento.
La delusione più cocente, però, fu quella di Fini, che aveva tentato per l’ultima volta (fino a quel momento) di insidiare la leadership di Berlusconi. Illudendosi di sfondare al centro, il leader di An aveva stretto un’alleanza con Mariotto Segni sotto il simbolo di un Elefantino. A loro si unirono i radicali Marco Taradash e Giuseppe Calderisi. Il risultato fu disastroso: 10,3 per cento. «Abbiamo giocato a calcio con le regole del basket» disse, durante una spietata autocritica nel salone liberty dell’hotel Plaza, dove aveva convocato una riunione pubblica della direzione del partito. «Il mio gravissimo errore, un errore da licenziamento in tronco» mi spiegò «era stato di aver portato avanti un progetto politico quando invece avremmo dovuto riaffermare soltanto la nostra identità. E l’identità di An non è quella di Segni, di Taradash e di Calderisi.» Fini rassegnò le dimissioni, fu acclamato di nuovo segretario e costrinse i suoi a raccogliere in estate 650.000 firme per abolire la quota proporzionale (25 per cento) della legge elettorale maggioritaria.
La modestia del risultato elettorale provocò anche le dimissioni di Franco Marini, sostituito da Pierluigi Castagnetti alla testa del Ppi, di Luigi Manconi, sostituito alla guida dei Verdi da Grazia Francescato, e di Umberto Bossi, confermato pure lui per acclamazione dopo il trauma del peggior risultato ottenuto dalla Lega nella sua storia.
Il Cavaliere trionfante grande elettore di Ciampi
Alle elezioni europee, come abbiamo detto, Bossi si era fermato al 4,5 per cento contro il 10,1 delle elezioni politiche di tre anni prima. Vederlo accanto a Milošević aveva turbato gran parte dei suoi elettori, e il vessillo della secessione aveva fatto il resto (anche se il Senatùr aveva cancellato la parola dal vocabolario della Lega subito dopo l’ingresso della lira nell’euro). Bossi mi disse di aver lavorato alla secessione con i tedeschi, che poi si erano tirati indietro. E aggiunse di aver dovuto cambiare registro per le 220 inchieste giudiziarie («ragioni ideologiche») che, con la faccenda della secessione, avevano colpito i suoi uomini. («Intorno a me vedevo gente spaventata, che andava dal procuratore di Verona, Papalia, dicendo che non c’entrava niente.») «Spero di piantare la bandiera della Lega in qualche regione» sospirò. Lo scapolo d’oro della politica italiana stava per sposarsi di nuovo.
Il vero trionfatore delle elezioni era stato Silvio Berlusconi. All’eccellente risultato delle europee, il Cavaliere aggiunse l’incredibile conquista del comune di Bologna – isola rossa per eccellenza – con una lista civica di centrodestra guidata da Giorgio Guazzaloca, di professione macellaio, presidente dei commercianti che aveva deciso di vendicarsi dei «comunisti» quando l’avevano cacciato dalla presidenza della Camera di commercio. Il Cavaliere aveva messo a segno altri due colpi magistrali: l’ingresso nel Partito popolare europeo, nonostante le proteste di Prodi, di Cossiga e del Ppi, e l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale.
Ciampi, eletto al primo scrutinio il 13 maggio, in realtà era stato candidato da Walter Veltroni, esattamente due mesi prima, il 13 marzo, con un’intervista alla «Repubblica». Dini, suo storico nemico, tentò di bruciarlo subito: «È il candidato dell’estrema sinistra» gridò.
Ma il più preoccupato era Marini, ancora segretario del Ppi. Il prezzo che D’Alema aveva concordato con lui per andare a palazzo Chigi era che, per la terza volta consecutiva – dopo Cossiga e Scalfaro –, un democristiano andasse al Quirinale. L’inattesa promozione del segretario dei Ds non era stata indolore per Marini. I fax di piazza del Gesù rigurgitavano d’insulti: «Vi siete venduto il partito!», e via dicendo. E lui doveva dimostrare che ne era valsa la pena. Così, quando lesse l’intervista di Veltroni, sollecitò immediatamente un incontro con il nuovo segretario dei Ds alla presenza di D’Alema e di Sergio Mattarella, vicepresidente del Consiglio. Si videro il 18 marzo a cena in casa di Veltroni e fu subito chiaro che i Ds non avrebbero mai votato per il presidente del Senato Nicola Mancino. Due gli addebiti che gli facevano: piaceva a Berlusconi ed emanava l’odore stantio della Prima Repubblica. In compenso, però, avrebbero votato Rosa Russo Jervolino. Marini e Mattarella accettarono, e quella sera persero il Quirinale. Se avessero detto: votiamo Mancino con chi ci sta, per i Ds sarebbe stato difficile bocciare pubblicamente l’uomo che ricopriva la seconda carica dello Stato. Berlusconi si sarebbe aggregato in nome della candidatura istituzionale e, alla fine, anche Fini e Casini, che non volevano Mancino, avrebbero fatto buon viso a cattivo gioco.
Con la Jervolino le cose si complicavano. «Non voteremo mai uno Scalfaro in gonnella» disse subito Berlusconi. E aveva già la carta di riserva: Ciampi, per l’appunto. L’aveva incontrato fin dal mese di marzo in privato e gli aveva assicurato la disponibilità a votarlo per il Quirinale. Successivamente, Gianni Letta aveva mantenuto i contatti, mentre Ciampi otteneva anche il tacito via libera di Alleanza nazionale. Il 4 maggio ricevette la visita di Altero Matteoli, che gli chiese due impegni a nome di Fini: nel caso si fosse ripetuto un ribaltone come quello che aveva estromesso Berlusconi da palazzo Chigi, il nuovo capo dello Stato avrebbe sciolto il Parlamento; se nella nuova Costituzione fosse stata prevista l’elezione diretta del presidente della Repubblica, Ciampi si sarebbe dimesso. An fu rassicurata su entrambi i punti.
Poco prima i Ds avevano bocciato Amato, gradito a Berlusconi e anche a D’Alema, ma frenato dal timore di qualche reazione di Craxi da Hammamet. Il Polo propose la coppia Ciampi-Mancino, Ds e popolari quella Jervolino-Ciampi. Marini disse a Letta che nelle prime tre votazioni avrebbero tenuto duro sul nome della Jervolino. La sua aspirazione segreta era di essere eletto lui alla quarta votazione, con i voti che né Berlusconi né D’Alema gli avrebbero fatto mancare. E il suo sogno si sarebbe avverato se i due non avessero già deciso di far confluire i loro voti su Ciampi fin dal primo scrutinio. Il segretario del Ppi lo seppe soltanto qualche ora prima delle votazioni.
Il nuovo capo dello Stato fu eletto il 13 maggio con 707 voti, 33 più del necessario. La Lega votò per un proprio senatore, Luciano Gasperini; Rifondazione, Pietro Ingrao; i radicali, Emma Bonino, che aveva fatto una splendida campagna mediatica per il Quirinale e avrebbe conquistato un incredibile 8,5 per cento alle elezioni europee di giugno. I franchi tiratori furono 185: larga parte del Partito popolare, una piccola frangia di Forza Italia, gli amici di Dini, Cossiga e Mastella. Marini accusò D’Alema di tradimento personale e politico. La frattura fu parzialmente ricomposta soltanto diversi anni dopo. Quando gliene chiesi le ragioni, il leader ds mi disse: «Marini è stato convinto fino all’ultimo momento che Berlusconi avrebbe votato un popolare. Non era così». E aggiunse a mezza bocca: «Vedendo arrivare un treno in corsa, invece di chiedersi che cosa ci fosse dietro, non gli sarebbe convenuto scansarsi?».
Bossi, il ritorno del figliol prodigo
La vittoria di Forza Italia alle elezioni europee del 1999 e la sconfitta della Lega rappresentarono l’anello mancante alla riconciliazione tra i loro capi. Bossi e Berlusconi, in verità, si erano visti – per la prima volta dopo il ribaltone – nel maggio 1997, quando il Senatùr era andato a trovare il Cavaliere convalescente dopo un intervento chirurgico. Bossi disse: «Tu non capisci niente di politica». L’altro rispose: «Tu hai rovinato l’Italia». La cosa finì lì, ma intanto i due avevano cominciato ad annusarsi. Mi confidò Bossi: «Berlusconi è un’anomalia, ma è pur sempre più vicino alla società di quanto non lo siano i comunisti, i fascisti e il potere teocratico della Chiesa». Lo aveva colpito una frase buttata lì in cucina da sua moglie Manuela: «Quanti figli ha Berlusconi? Cinque? Umberto, uno con cinque figli non fa tutte le cose che scrivono di lui». Il Senatùr era rimasto colpito dalla gragnuola di provvedimenti giudiziari piombati sul Cavaliere. «All’inizio pensavo che lavorasse per Agnelli e i Poteri Forti» mi disse un giorno. «Poi è arrivata tutta quella roba lì…»
Si rividero altre due o tre volte, mentre il Senatùr cominciava ad avvertire qualche scricchiolìo nel monolitismo della Lega. Alla fine del 1998, quando incontrò Martinazzoli per convincerlo a candidarsi alla presidenza della Repubblica in casa di Vito Gnutti, già ministro leghista dell’Industria nel primo governo Berlusconi, Bossi scoprì che l’amico si stava «mettendo in proprio». Aveva saputo, inoltre, che Adolfo Urso, su mandato di Fini, stava prendendo contatto con altri due leghisti pentiti – Domenico Comino in Piemonte e Fabrizio Comencini in Veneto – in vista delle elezioni regionali del 2000 e delle politiche del 2001. Fu allora che decise di stringere con il Cavaliere, senza peraltro aver mancato di sondare le possibilità che gli offriva la sinistra.
Al contrario di Veltroni, che non ha mai legato con Bossi, D’Alema ha sempre corteggiato la Lega, fedele al motto che i voti non hanno odore. Al congresso leghista del 1995 il segretario dei Ds aveva insignito il Senatùr dell’onorificenza di «costola della sinistra», e il suo discorso di venti minuti era stato interrotto trentaquattro volte dagli applausi. Quello stesso anno, emissari delle Botteghe Oscure avevano perfino offerto alla Lega la presidenza della regione Lombardia (il candidato era Giancarlo Pagliarini, anche lui ex ministro di Berlusconi). La stessa cosa avvenne, forse, in termini più sfumati un anno prima delle elezioni regionali del 2000.
Il «forse» è motivato da due versioni leggermente divergenti che sull’episodio mi fornirono Roberto Maroni e Pierangelo Ferrari, responsabile dei Ds per il Nord. Il primo mi disse che i Ds erano inizialmente disposti a candidare tre esponenti leghisti alla presidenza di Piemonte, Lombardia e Veneto, ma che, dopo il disastroso risultato della Lega alle elezioni europee, avevano limitato la loro offerta alla Lombardia. Ferrari precisò che, al contrario del 1995, a una trattativa vera e propria non si arrivò mai. «A noi premeva un accordo generale in vista delle politiche del 2001» mi disse. «Se si fosse andati avanti, il nome di Maroni come presidente della regione Lombardia era certo quello più credibile.»
Bossi arrivò a far incontrare Forza Italia e i Ds in un comizio a Stanzano, in provincia di Bergamo, dove la Lega aveva la maggioranza assoluta. Il partito di Berlusconi era rappresentato da Giuliano Urbani, quello di D’Alema da Sergio Sabattini, parlamentare emiliano della vecchia e solida guardia comunista. Dopo pochi minuti, il secondo capì che la testa e il cuore della Lega erano ormai dall’altra parte.
D’Alema tentò l’accordo, Berlusconi lo fece
D’Alema tentò fino all’ultimo di convincere Bossi a mettersi con lui, ma invano. Nel suo partito, come abbiamo visto, l’ala di Veltroni e di Folena remava contro. E il colpo definitivo all’ipotesi di un accordo lo diede Martinazzoli, che si candidò per il centrosinistra alla presidenza della regione Lombardia.
Nella stesura di una prima bozza di programma comune tra il Polo e la Lega, Urbani fu affiancato da Giulio Tremonti. Celebre commercialista e professore dell’università di Pavia, lasciato presto il Patto Segni, quest’ultimo era certamente l’uomo di Forza Italia più vicino alla Lega. La sua amicizia personale con il Senatùr aveva una solida base ideologica comune. Tremonti ne aveva dato prova nei suoi editoriali sul «Corriere della Sera» all’inizio degli anni Novanta (la collaborazione, interrotta nel 1994, sarebbe ripresa nell’estate del 2004). Tra il novembre e il dicembre 1999 scrisse per il «Giornale» due articoli che erano la base ideologico-politica dell’accordo tra Bossi e Berlusconi. Il secondo si concludeva così: «Chi scrive deve una parte di queste riflessioni a Umberto Bossi».
L’accordo venne formalizzato alla vigilia di Natale con il «patto di Linate». All’inizio di dicembre il Cavaliere aveva ospitato Bossi e Maroni sul proprio aereo in volo da Roma a Milano. Fino a quel momento il Senatùr non aveva detto niente ai suoi, e il Cavaliere aveva fatto altrettanto con Fini e Casini. Maroni scoprì allora la novità, i leader di An e Ccd lo seppero al telefono da Berlusconi nelle ore successive. Fini non si lasciò commuovere dalla parabola del figliol prodigo che il Cavaliere gli ricordò con cristiana devozione. Pose invece due condizioni: la «Lega Nord per l’indipendenza della Padania» doveva togliere dal proprio nome la parola «indipendenza» e dimenticare per sempre la secessione. («Non credevo che Bossi avrebbe accettato» mi disse Fini. «Quando lo fece, ebbi buon gioco nel dire al nostro elettorato che avevamo raggiunto due risultati: nessun cedimento sull’unità della patria e la ragionevole certezza di battere la maggioranza di governo.») Anche Casini, all’inizio, la prese male. Poi fece due conti e si rassegnò: la Lega non sarebbe entrata nel Polo, il condominio si sarebbe allargato alla Casa delle Libertà.
I nuovi alleati si incontrarono per la prima volta in pubblico a Milano, nel gennaio 2000, in un convegno alle Stelline. Ignazio La Russa di An, Carlo Giovanardi del Ccd e Rocco Buttiglione del Cdu si sedettero accanto a Maroni della Lega, oltre ai soliti Tremonti e Urbani.
Il patto tra Bossi e Berlusconi – sottoscritto alla mensa del Cavaliere alla fine del 1999 – restò riservato fino al 15 febbraio 2000, quando si decise di farlo firmare ai candidati presidenti di regione della Casa delle Libertà. Titolo: «Programma per l’attuazione concreta del federalismo». Nelle settimane precedenti, in alcuni discorsi Berlusconi aveva messo il cappello sulla primogenitura del progetto: il federalismo, ricordò, era nel programma elettorale del Polo già nel 1994 ed era stato lui, il Cavaliere, a pronunciare per primo la parola «devoluzione» nel congresso di Assago del 1999.
Il patto stabiliva la competenza assoluta delle regioni su sanità, istruzione, formazione e polizia locale. Il potere regionale sulla sanità (che, di fatto, esiste da anni) veniva temperato dal «vincolo esclusivo delle direttive costituzionali e delle direttive comunitarie». In sostanza: resta il servizio sanitario nazionale uguale e gratuito per tutti, ma le regioni hanno mano libera dal punto di vista organizzativo e funzionale. Sulla scuola, il patto (ripreso poi dagli accordi di governo del 2001) recitava: «La legislazione statale definisce l’ordine degli studi, gli standard di insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio. Le Regioni acquistano competenza in materia di organizzazione scolastica, di offerta dei programmi educativi, di gestione degli istituti scolastici». La polizia locale sarebbe invece servita «per una più efficace azione di prevenzione e repressione, sul territorio, dei cosiddetti “piccoli crimini”. Che per la gente sono, in realtà, grandi crimini».
Veniva infine introdotto il federalismo fiscale su base regionale, secondo il modello tedesco. Mentre per quanto concerne sanità, scuola e federalismo fiscale le interpretazioni dei contraenti erano sostanzialmente unitarie, sulla polizia locale sono caduti negli anni i progetti iniziali dei leghisti che prevedevano il trasferimento alle regioni di personale della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. La nuova Costituzione approvata nell’autunno del 2004, come vedremo in seguito, ne prevede espressamente la funzione amministrativa. Nelle trattative per i ruoli di potere all’interno delle regioni, la Lega chiese (e ottenne) la presidenza del Consiglio regionale nelle regioni del Nord in cui la Casa delle Libertà si fosse affermata.
All’inizio, sia l’elettorato del Polo che quello leghista accolsero il patto con grande freddezza. Alla sua pubblicazione il popolo del Carroccio s’infiammò, gli altri bevvero l’amaro calice nella certezza che le elezioni regionali avrebbero compensato il sacrificio.
La doccia gelata del 16 aprile
D’Alema prese malissimo il patto Bossi-Berlusconi. Incrociando Pagliarini alla Camera, gli sibilò: «Di’ al tuo capo che gli faccio un culo della madonna». Il presidente del Consiglio si impegnò in prima persona e in modo capillare nella campagna elettorale; visitò 66 città in 50 province d’Italia e partecipò a 111 manifestazioni politiche e istituzionali. Fu il suo staff a comunicare questi dati, nella convinzione di poter accreditare a D’Alema il previsto successo dell’Ulivo. Previsto al punto che sabato 15 aprile 2000, a ventiquattr’ore dal voto, il primo ministro disse a Federico Geremicca della «Stampa» che era andato a trovarlo a Gallipoli: «Noi vinciamo sicuramente in otto regioni, loro sicuramente in tre. Ne restano quattro: potrebbero andare due di qua e due di là. Ma se il trend è positivo, potremmo perfino vincere in tre delle quattro regioni in discussione».
D’Alema dunque prevedeva di chiudere la partita 10 a 5, forse 11 a 4. Completò il suicidio con questa frase: «Ricordo bene di aver detto proprio qui [a Gallipoli] nel 1996 che avremmo preso 342 seggi alla Camera. Di seggi, invece, ne prendemmo 338. Quattro in meno di quanto avevo previsto. Un errore imperdonabile per un professionista come me».
Quel giorno D’Alema non fu l’unico professionista della politica a sbagliare. Sbagliarono anche tutti i maggiori istituti di sondaggio: la Swg, che dal 1994 lavora per i Ds, accreditava con certezza all’Ulivo otto regioni, e D’Alema ne aggiungeva almeno due (Abruzzo e Liguria). La grande sorpresa, l’undicesimo centro, poteva essere il Veneto. Abacus assegnava al centrosinistra dieci regioni (fra cui Lazio, Abruzzo e Calabria). L’undicesima, incerta, era la Liguria. Renato Mannheimer ne assegnava nove all’Ulivo (fra cui Veneto, Lazio e Liguria). Soltanto Datamedia, che lavorava per Forza Italia, osava assegnare otto regioni al centrodestra.
Finì 8 a 7 per la Casa delle Libertà. La coalizione di Berlusconi conquistò tutto il Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria), due regioni del centro (Lazio e Abruzzo), due del Sud (Puglia e Calabria). Per l’intero pomeriggio della domenica elettorale la Swg continuò a illudere D’Alema su un risultato favorevole nel Lazio, in Calabria e, addirittura, nel Veneto. L’incertezza durò fino a notte. Caddero dapprima le illusioni sul Veneto e la Liguria, poi quelle sull’Abruzzo e la Calabria. Infine, con il Lazio, l’Ulivo subì il colpo mortale.
L’errore commesso dagli istituti demoscopici (e da D’Alema) era da segnare con la matita blu. I rilievi erano stati effettuati sui candidati e non sui partiti. In Piemonte vi piace più Ghigo o la Turco? Nel Veneto preferite Cacciari o Galan? Nel Lazio, chi votereste tra Badaloni e Storace? La maggiore notorietà dei candidati dell’Ulivo li aveva fatti lievitare nei sondaggi. In realtà, Berlusconi – come vedremo – aveva fortemente politicizzato la campagna elettorale. Il voto fu politico e penalizzò il centrosinistra.
L’indomani D’Alema si assunse per intero la responsabilità del risultato. «Abbiamo sbagliato campagna elettorale» disse ai suoi. «Non abbiamo saputo cogliere la volontà di cambiamento degli italiani.» Fece convocare una riunione della maggioranza: aveva deciso di rinunciare a candidarsi alle elezioni del 2001, ma sarebbe rimasto al governo. Nel giro di quattro ore la situazione precipitò. Boselli non si presentò, chiamandosi fuori. D’Alema capì l’antifona e, in apertura di riunione, annunciò le dimissioni. Si aspettava tuttavia che gli chiedessero di ritirarle, se non altro per paura del vuoto. Lo fecero soltanto Dini e Cossutta. Troppo poco. Pierluigi Castagnetti scrisse il necrologio: «Le dimissioni sono un gesto di grande responsabilità». Perfino Mastella, il governativo per eccellenza, gli disse di andarsene. Poco dopo D’Alema saliva al Quirinale per rassegnare il mandato.
D’Alema affondato dai suoi alleati?
Il governo era già sotto tono dopo le elezioni europee del 1999. «Dopo il raggiungimento dell’euro» mi disse D’Alema «in tutta Europa si era diffusa la convinzione che la sinistra avrebbe garantito la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. E invece la stagnazione ha procurato delusione ed effetti elettorali negativi. Noi, in più, avevamo il partito di Prodi…» Il risentimento di Prodi nei suoi confronti è cessato? gli domandai. La risposta fu: «Non lo so».
Il governo D’Alema era di fatto entrato in crisi dopo l’elezione di Ciampi. «Appoggiarlo fu un errore» mi disse fuori dei denti Claudio Velardi, consigliere politico del presidente del Consiglio. Non perché Ciampi non meritasse l’appoggio, quanto perché eleggere lui aveva significato rompere i rapporti con Franco Marini. Quando D’Alema lo chiamò al telefono e l’altro si fece negare, a palazzo Chigi capirono che il vento era cambiato. E quando Marini fu sostituito da Castagnetti – vicino a Prodi quanto Marini ne era lontano («Voto per l’Asinello» aveva detto alle elezioni europee, pur facendo parte del Ppi) –, il presidente del Consiglio prese atto che i suoi giorni sarebbero stati più difficili.
Era salito a palazzo Chigi dopo un patto con Marini («Se Franco avesse detto di no la notte del 9 ottobre 1998» mi disse Marco Minniti «il governo D’Alema non sarebbe mai nato»), ora l’amico si sentiva tradito e per di più al potere era andata quella sinistra dossettiana che, malgrado fosse definita dagli avversari «cattocomunista», era detestata da D’Alema oltre l’immaginabile. Cossiga, che non sopportava Prodi e i suoi, diffidò il presidente del Consiglio dall’allargare la coalizione all’Asinello. L’altro, però, vi fu costretto: poteva tener fuori dal centrosinistra il secondo partito? Così, alla fine del 1999 Cossiga e Boselli se ne andarono, Mastella fece un’altra miniscissione e rimase, trasformando l’UdR di Cossiga in Udeur, e nel governo entrarono gli uomini di Prodi (Enrico Letta prese il posto di Pierluigi Bersani all’Industria). Sconfitto nella battaglia per i ministeri, Mastella ebbe una legione di sottosegretari, che si moltiplicarono come negli anni più bui della Prima Repubblica. Per qualche ora fu sottosegretario anche Romano Misserville – gentiluomo «fascista non pentito», passato sotto le insegne dell’Udeur –, ma scoppiò una bufera e lui si dimise senza battere ciglio.
Come accade sempre, anche questa volta il governo numero due presieduto dalla stessa persona era più debole del governo numero uno. Anche perché – come accadde spesso nella storia della Dc – il presidente del Consiglio non si sentiva appoggiato dal segretario del suo partito. Veltroni era stato incoronato dal congresso apertosi a Torino il 13 gennaio 2000. Al Lingotto, sede storica della Fiat, simbolo dell’operaismo torinese e delle memorabili lotte tra Vittorio Valletta e i compagni del reparto «Stella rossa», Veltroni si presentò con uno slogan ultranuovista: «I care», ci penso io. («Si preoccupano, ma non si capisce di che cosa» ironizzò Giuliano Ferrara.)
Veltroni aveva sfidato la vecchia base del partito con un discorso pronunciato il 5 novembre dinanzi agli studenti del Tasso, uno dei più famosi licei romani. In quell’occasione invitò la sinistra a «liberarsi della zavorra ideologica» e a uscire per sempre dalla fase più ambigua e «tragica» della propria storia. «Il compromesso con l’Unione Sovietica» disse «è durato anche dopo la svolta di Berlinguer, nella seconda metà degli anni Ottanta.» E fece autocritica perché il suo partito aveva sempre fatto manifestazioni contro la violazione dei diritti democratici in Occidente e mai uno di solidarietà con Jan Palach, lo studente praghese che si immolò per protestare contro l’invasione sovietica del suo paese.
Contestato ovviamente a sinistra, mi disse: «Volevo sancire definitivamente la collocazione del mio partito nel socialismo liberale. Ho retto a una bella ondata, ma poi sono arrivato al Lingotto con l’80 per cento dei consensi». Acclamato al congresso per un discorso di straordinaria durezza contro Berlusconi, Veltroni uscì dal Lingotto con un’apparente, ritrovata unità con D’Alema. Minniti dichiarò: «Massimo ha fatto un capolavoro… Adesso ci aspettano le regionali. Saranno le nostre primarie. Se vinciamo, gli italiani avranno risolto la questione della leadership nella coalizione».
In realtà, il mal sottile di D’Alema in quel congresso si acuì. Più tardi, a elezioni perdute, Minniti mi disse che aver ceduto la segreteria a Veltroni «fu percepito dai nostri alleati come un segnale di debolezza. Con D’Alema a palazzo Chigi il partito ha stabilito una linea di demarcazione, distinguendosi dal governo». Il nuovo leader dei Ds mi partecipò tutta la sua incredulità: «Massimo ha riconosciuto che dal partito gli è venuto sempre un sostegno leale». Sta di fatto che D’Alema condusse la campagna elettorale in deliberata solitudine, come una sfida a Berlusconi ma, soprattutto, agli alleati. Come disse Minniti, egli voleva guadagnarsi con la vittoria la garanzia di poter competere con il Cavaliere alle elezioni politiche del 2001. Esattamente quanto i suoi alleati intendevano impedirgli.
Castagnetti, subito dopo la nomina a segretario del Ppi, anticipò a D’Alema che non sarebbe stato l’unico candidato del centrosinistra. Arturo Parisi, ambasciatore a Roma di Prodi, mi riferì con franchezza: «Fummo noi a bloccare il tentativo di spostare a palazzo Chigi l’organizzazione dell’intera campagna elettorale. Senza che ne sapessimo nulla, D’Alema fece produrre uno spot televisivo completamente centrato sui successi del governo, senza nemmeno un riferimento al fatto che quei risultati erano l’obiettivo raggiunto dalla coalizione nel corso di tre governi». Quello spot fu bocciato. In compenso, sulle reti Rai andò in onda un’enorme quantità di spot istituzionali sulle diverse attività di governo: talmente enorme che, a un certo punto, lo stesso palazzo Chigi dovette ridurli per evitare effetti controproducenti. Furono spedite 30.000 lettere personalizzate, a firma di D’Alema, a imprenditori edili per illustrare gli incentivi stabiliti nell’ultimo anno.
Alla fine, l’Ulivo perse perché non era riuscito a imprimere al paese la svolta riformista promessa da Prodi e che il presidente del Consiglio tentò invano di attuare, fermato dai contrasti interni e dai veti della Cgil. Il 20 marzo 2000, quando fu pubblicato un documento D’Alema-Blair che lasciava presagire un’apertura governativa sulla riforma delle pensioni, Cofferati lo bocciò in pubblico, Veltroni e Salvi in privato («Quel progetto è l’opposto del mio» denunciò il ministro del Lavoro).
«Ho chiesto al sindacato atti di coraggio» mi disse D’Alema «come l’anticipo della verifica pensionistica: avrebbe chiuso la questione senza la necessità di arrivare a un’altra riforma. Qui ha giocato negativamente nella Cgil un atteggiamento di sospetto, una certa diffidenza. L’idea, insomma, che io immaginassi di conquistarmi sulla pelle della Cgil stessa una sorta di legittimazione a governare. E questo non era assolutamente il mio obiettivo.» Sul tema dei diritti D’Alema mi presentò un’analisi che non era molto diversa da quella che avrebbe sostenuto Marco Biagi nel progettare la riforma poi attuata dal centrodestra: «L’attuale sistema dei diritti va difeso, ma essi appartengono solo a una parte del mondo del lavoro. La grande maggioranza dei lavoratori – compresi i lavoratori autonomi – si trova al di fuori dello Statuto dei lavoratori. Il vero, grande problema, allora, non è limitarsi a difendere questi diritti, ma allargarli, tenendo conto di una realtà del mondo del lavoro diversissima da quella di vent’anni fa. Oggi il lavoro è profondamente cambiato, fortemente individualizzato, la grande impresa perde progressivamente addetti, mentre cresce l’incidenza delle nuove tecnologie. Se la sfida vera è questa, è sbagliato contrapporre modernizzazione e diritti. La sinistra dovrebbe modernizzare le proprie idee. La società si modernizza anche senza di noi: se non siamo protagonisti, perdiamo le elezioni e diventiamo inservibili. Il resto è propaganda. I numeri sono di una spietata obiettività. Come diceva Lenin, i fatti sono testardi…».
«La nostra vena aperta si chiama sicurezza» mi disse Veltroni dopo le elezioni. «Gli italiani hanno paura. Paura di perdere le posizioni acquisite. Paura per la loro sicurezza sociale, dal posto di lavoro alla pensione. Paura per la loro sicurezza personale. Questo tema porta con sé anche l’aspetto criminale dell’immigrazione. Forse noi non abbiamo avuto sufficiente consapevolezza di tutto ciò. Nell’estate del 1999 io proposi il passaggio delle pensioni dal sistema retributivo a quello contributivo. Erano d’accordo con me sia la maggioranza che la Cgil. Se si fosse lavorato in quella direzione, saremmo riusciti a completare per tempo la riforma delle pensioni. Invece gli annunci continui hanno aumentato l’insicurezza. Non abbiamo marcato a sufficienza l’aspetto innovativo della coalizione.» E così a palazzo Chigi arrivò Giuliano Amato, riserva della Repubblica a tempo pieno.
Berlusconi su «Azzurra», Storace decisivo
Berlusconi fece la migliore campagna elettorale del suo decennio politico. Per mobilitare le piazze italiane, catturare l’attenzione dei media e sequestrare i giornalisti costringendoli ogni giorno a parlare di lui, affittò un gigantesco traghetto di lusso della Grimaldi con una stiva capace di ospitare 3000 persone. Si stabilì per quasi un mese sulla nave, ribattezzata Azzurra, e da lì lanciò la sua sfida a D’Alema, che naturalmente accettò, anche se attese invano il confronto televisivo finale. («Un ciclista in vantaggio di cinque minuti» spiegò il Cavaliere «non aspetta l’inseguitore per giocarsi la corsa in volata.») Ogni giorno l’attracco della nave nei porti era un evento, ogni sera il comizio di Berlusconi era uno spettacolo seguito da migliaia di persone.
Andai a vedere quello di Catania: 3000 spettatori a bordo, altrettanti sul molo, che seguivano l’evento ripreso da sei telecamere. Il Cavaliere cantava l’inno nazionale con le «ragazze azzurre», saltava più in alto di loro al grido di «Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!». Fece discorsi politici al cento per cento, dissodando il terreno per il 2001: «La sinistra ha occupato tutti i posti chiave dello Stato e ha utilizzato contro di noi i suoi giudici e i suoi pubblici ministeri. La sua politica è esattamente il contrario della nostra concezione cattolica e liberale dello Stato. Perché per noi la verità viene prima dello Stato. È lo Stato a dover servire i cittadini e non il contrario. Noi siamo per la sussidiarietà: lo Stato non intervenga dove i cittadini possono fare da soli»; «Ricordate quello che certi magistrati hanno fatto tra il 1992 e il 1994, trattando gli uomini come oggetti, incarcerandoli e gettando la chiave della cella per costringerli a parlare e a denunziare altri uomini»; «I cittadini e le imprese sono massacrati dal fisco. Credo che non sia giusto chiedere a qualcuno di versare tasse allo Stato per più di un terzo di quel che guadagna», e così via.
Il risultato delle regionali consolidò il ruolo di Forza Italia come primo partito (25,6 per cento), l’effetto D’Alema portò i Ds a migliorare rispetto alle europee (dal 17,4 al 19,2), i popolari si ripresero (5,7), i democratici crollarono (dal 7,7 al 4,7), Ccd e Cdu, ancora divisi, raggiunsero insieme il 6,4. Tuttavia, il risultato migliore rispetto alle europee lo ottenne Alleanza nazionale, passata dal 10,3 al 13,1 per cento.
Fini aveva superato la crisi del partito fin dall’estate del 1999, riunendo i suoi prima in barca a Ponza, poi al Lido degli Estensi. Nel frattempo la Destra sociale di Storace e Alemanno litigò più volte con la Destra protagonista di Gasparri e La Russa (come sarebbe avvenuto anche nei quattro anni successivi) e fece i primi tentativi di dare la scalata al partito, grazie alla sensazionale vittoria di Storace sul governatore uscente Piero Badaloni alle elezioni regionali del Lazio.
All’inizio, Storace aveva dovuto faticare non poco per guadagnarsi la candidatura in An e moltissimo perché Fini riuscisse a imporla agli alleati. Berlusconi e Casini avevano cercato di convincerlo che non avrebbe mai vinto contro Badaloni: il giornalista del Tg1 era sconosciuto alla maggior parte della popolazione regionale e la sua giunta non aveva fatto niente di memorabile, ma il previsto mixage di consensi di larga parte del mondo cattolico e dell’intera sinistra sembrava insuperabile. Senza avvertire Fini, Storace scrisse a Berlusconi, dopodiché andò a trovarlo per vincerne la diffidenza. (Era dimagrito di 25 chili, primo requisito per farsi ricevere.) In un primo momento il Cavaliere era stato freddo, poi aveva cominciato a considerare l’idea della candidatura e alla fine diventò lo sponsor più entusiasta del futuro presidente della regione Lazio, la cui vittoria fu probabilmente decisiva per indurre D’Alema a rassegnare le dimissioni. Al punto che, incontrando Amato nella tribuna d’onore dello stadio Olimpico, Storace gli disse: «Tu stai lì perché io sto qui».
La morte di Craxi e il rimorso tardivo
Bettino Craxi morì ad Hammamet nel pomeriggio del 19 gennaio 2000. Aveva sessantacinque anni. «Vuoi un caffè?» gli aveva chiesto la figlia Stefania. Qualche istante dopo, rientrando con il vassoio, l’aveva visto riverso sul letto. «Non dormire» gli aveva detto «altrimenti stanotte non chiuderai occhio.» Craxi, però, non dormiva: aveva gli occhi sbarrati. Un ultimo respiro, poi più nulla.
Avevamo cenato insieme in luglio, trascinava la gamba rosa dal diabete, ma era sempre lucidissimo, straordinariamente cauto nell’esprimere giudizi su fatti che non conosceva direttamente. Ebbi la sensazione che si preparasse un giorno a far ritorno in Italia, ma i famigliari hanno escluso che un progetto del genere sia mai stato nei suoi pensieri. In novembre, nell’anniversario della caduta del Muro, avrebbe dovuto presentare – in collegamento da Hammamet –, insieme con Andreotti e Occhetto, il mio libro sull’ultimo decennio italiano. Il 25 ottobre, però, ebbe una crisi e fu ricoverato d’urgenza nell’ospedale militare di Tunisi. Dall’Italia si precipitarono Guido Pozza e Ornella Melogli, i suoi medici curanti dell’ospedale milanese San Raffaele, mandati da don Luigi Verzé. La situazione cardiaca era compromessa, aveva un’infezione al fegato e una macchia su un rene: un tumore. Bisognava operare. Si pensò a Parigi.
Giuliano Ferrara chiamò palazzo Chigi, dove governava D’Alema, chiedendogli di intervenire presso il primo ministro francese Jospin. L’indomani il portavoce del governo francese dichiarava Craxi persona non gradita in Francia. Restava l’Italia, «dove Bettino» mi disse la moglie Anna «sperava che gli consentissero di tornare per curarsi. Quando gli parlavamo di Parigi o di New York, rispondeva: “Perché non Milano? Al San Raffaele ci sono i miei medici…”». Ma in Italia Craxi aveva subìto due condanne definitive per Tangentopoli e pendeva su di lui un’ordinanza di custodia cautelare per un terzo processo in appello.
Don Verzé si appellò al procuratore di Milano Borrelli e al presidente della Repubblica per chiedere la grazia. Il primo gli rispose «con un diligente allineamento alla legge», mi disse don Verzé, che ha pubblicato il carteggio nel suo libro Pelle per pelle: «Il rientro volontario in Italia comporterebbe l’assoggettamento dell’onorevole Craxi ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui». Ciampi, sollecitato anche da Berlusconi e da Gianni Letta, fece rispondere al sacerdote dal prefetto di Milano di non poter intervenire. La grazia, infatti, può essere concessa soltanto ai condannati con pena definitiva, e Craxi lo era soltanto in parte.
Resta da chiedersi perché non gli sia stato concesso il differimento della pena, com’è avvenuto giustamente per Severino Citaristi, il segretario amministrativo della Dc che non ha intascato un centesimo, è stato condannato a decenni di carcere per corruzione ed è gravemente ammalato. Craxi stesso sperava in un gesto di Ciampi. «Assistemmo insieme» mi disse la moglie Anna «al messaggio augurale di fine anno [1999] del capo dello Stato. Bettino sperava che pronunciasse il suo nome. Non lo sentì, e da quel momento si lasciò andare.» L’unico che gli rispose fu il papa. Dettò a don Verzé un messaggio di conforto e di augurio per il delicatissimo intervento chirurgico al quale Craxi doveva essere sottoposto, e l’ex leader socialista gli rispose: «Santo Padre, don Verzé mi porta il suo messaggio augurale. Grazie. La mia grande fiducia è in Lei. Offro le mie sofferenze per il mio paese e per le intenzioni di Vostra Santità».
Dopo molti contrasti con i medici tunisini, l’intervento chirurgico fu compiuto da un’équipe italo-araba in condizioni tecniche e igieniche drammatiche, che misero seriamente in pericolo la vita del paziente, come rivelò nel gennaio 2001 il chirurgo Patrizio Rigatti in un’intervista al «Corriere della Sera». «Il letto era arrugginito» mi raccontò Stefania Craxi. «Un infermiere illuminava il campo operatorio reggendo una lampada da cui pioveva polvere.» Il cuore resse, ma il tumore era ormai in metastasi. Anche in Italia Craxi sarebbe morto presto, ma «monitorando le già compromesse funzioni cardiache» mi disse don Verzé «controllando le metastasi e l’imperversare del diabete, certamente si sarebbe prolungata la sua vita, pur nell’inevitabilità di una fine non lontana».
Craxi sarebbe potuto tornare in Italia piantonato dai carabinieri in ospedale, per essere trasferito convalescente all’infermeria di San Vittore. Ma voleva rientrare da uomo libero. Quando gli domandai nel nostro primo incontro in Tunisia nel 1995 perché non si facesse arrestare, mi disse di essere convinto che non sarebbe uscito vivo di prigione. «La mia libertà è la mia vita.» La stessa frase ora è scolpita su un libro di pietra, adagiato sulla sua tomba nel cimitero di Hammamet.
«Un giorno sarò sepolta anch’io qui» mi disse Anna. E Stefania: «Fino a quando io sarò viva, papà non tornerà in Italia». Fu lei a rifiutare per prima i funerali di Stato, quando D’Alema lo propose. A palazzo Chigi dissero che gli spettavano, in quanto Craxi era stato presidente del Consiglio. A ben rifletterci, l’idea era grottesca. Delle due, l’una: o Craxi era il più grande ladro di Stato della storia italiana – com’era stato additato all’opinione pubblica attraverso processi di inusitata rapidità e condanne esemplari –, e allora il ruolo di presidente del Consiglio era un’aggravante non da poco; oppure i maggiori esponenti politici italiani conoscevano bene le condizioni in cui Craxi (come molti altri leader) si era trovato a operare, e allora è legittimo dedurre che volessero concedergli una sorta di assoluzione politica post mortem – distinta dall’impossibile assoluzione giudiziaria –, rivelatrice del fatto che Craxi era stato soltanto la pedina strategica di una scacchiera che ne aveva tante, e di ogni colore. Se in quella scacchiera lui era il re, altri erano gli alfieri e i cavalli.
I funerali vennero celebrati nella cattedrale di Tunisi dall’arcivescovo, che chiamò Craxi «Re Bettino». La chiesa era gremita di socialisti italiani, che si riunivano per la prima volta dopo la drammatica diaspora. Al cognato Paolo Pillitteri il procuratore generale Borrelli negò il permesso di espatrio di poche ore a causa del residuo di pena di una condanna alla quale seguirono sette assoluzioni. Inutili le proteste del Guardasigilli Diliberto e dello stesso procuratore D’Ambrosio. In chiesa si spinse fin sull’altare un Cossiga pallidissimo. Berlusconi e la moglie Veronica si confusero tra la folla. Stefania aveva un garofano rosso all’occhiello. Il governo era rappresentato dal ministro degli Esteri, Dini, e dal sottosegretario alla presidenza, Minniti, ai quali – benché personalmente non colpevoli – vennero restituite le monetine lanciate nel 1993 dai manifestanti del Pds contro Craxi all’uscita del Raphaël.
Cossiga, Berlusconi, ma anche D’Alema, il presidente del Consiglio Amato e quello del Senato Mancino, Casini, Buttiglione e molti altri si riunirono il 2 febbraio 2001 nella sede parlamentare di San Macuto per commemorare Craxi. Nella sua orazione Giuliano Vassalli, il grande giurista che fu ministro della Giustizia per il Psi, usò la parola «esilio». Era la riabilitazione ufficiale dell’illustre estinto.
È morto ricco, Craxi? Fin dal nostro incontro del 1995, lui sfidava gli investigatori a indagare a tutto campo sul suo patrimonio. Mi ripete Cossiga a quasi cinque anni dalla sua morte: «Ma quali ricchezze? Basta andare nella casa di Hammamet e conoscere la sua famiglia». Mi disse Amato: «Non ho mai notato tracce di arricchimento nella vita di Craxi, né mi risulta che i suoi famigliari abbiano ereditato beni lussuosi. Non ho visto la casa di Hammamet, ma il terreno lì era meno costoso di quanto non lo fosse in Calabria negli anni Cinquanta. Andai una sola volta nell’appartamento in affitto di Craxi in via Foppa a Milano, quando morì suo padre, e anche lì…».
«Il mio portinaio» mi disse Stefania «ha comprato una casa al figlio. Mio padre no. Mi sono sposata due volte. La prima contro il parere della famiglia, e mi sono comprata da sola le lenzuola. La seconda con il consenso dei miei, ma le lenzuola ho dovuto comprarmele da sola lo stesso. Il lascito patrimoniale di papà sono stati gli avvocati da pagare…» Una pausa e poi: «Il tesoro del Partito socialista c’è tuttora. Non credo che i conti pervenuti a mio padre dai collaboratori di Balzamo fossero gli unici. Il conto che Pacini Battaglia amministrava per conto del Psi dov’è?». Oggi, quando perde le cause per calunnia, Pacini Battaglia non paga i risarcimenti dovuti: risulta nullatenente.
Quando Amato candidò Rutelli
È immaginabile, presidente, che lei a un certo punto decida di farsi da parte per chiudere la questione del candidato premier del centrosinistra? «La storia della scelta del candidato premier del centrosinistra sta andando avanti da molto tempo» mi rispose Amato. «Ho stima sia di me stesso sia di Rutelli. Non sta a me dire quale dei due sia il migliore e non credo sia utile un conflitto imperniato su di noi. Io sento come mio dovere evitare che questo accada.» Sta dicendo che lei si sta tirando fuori dalla gara, candidando Rutelli? «Potrei dire che in questo momento sto chiedendo alla maggioranza di riconoscersi in Rutelli e di riconoscersi al tempo stesso nel mio governo per portare a termine la legislatura.»
Erano le 20.10 di lunedì 25 settembre 2000. Nello studio di «Porta a porta» il terzo presidente del Consiglio bruciato dal centrosinistra in quattro anni annunciava con grande dignità il suo abbandono. Dall’automobile che lo accompagnava in via Teulada, Amato aveva anticipato la sua decisione soltanto a tre persone: Carlo Azeglio Ciampi, Massimo D’Alema e Gianni Letta. Rutelli seppe la novità atterrando poco dopo a Bangkok per uno scalo tecnico del volo che lo portava alle Olimpiadi di Sydney, così come cinque mesi prima Amato aveva saputo di essere presidente del Consiglio mentre si trovava in metropolitana a New York. Prima di arrivare al suo nome, gli uomini della maggioranza avevano ricevuto tre rifiuti: Nicola Mancino, Antonio Fazio, Mario Monti. Nessuno era interessato a presiedere un governo ponte di un anno, in una situazione politica difficilissima.
Diverso era il discorso per il ministro del Tesoro. Amato è una delle teste migliori che ci siano in Italia, stimato sia da D’Alema sia da Berlusconi: entrambi volevano affidargli il governo prima di offrirlo a Maccanico, ma D’Alema, come abbiamo visto, temeva le reazioni di Craxi. Ora che il leader socialista era morto, potevo chiedere al nuovo presidente del Consiglio: «Con lui vivo, lei sarebbe qui?». Amato mi rispose: «La situazione non sarebbe diversa». Gli ricordai che nel 1996, quando gli avevo ventilato l’ipotesi di un ritorno di Amato a palazzo Chigi, Craxi lo aveva definito «un extraterrestre, un tale che si aggira stralunato sulla scena politica dando mostra di aver vissuto i decenni precedenti sulla luna». Il presidente del Consiglio ricordava bene quel ritratto: «Craxi» mi disse «attribuiva a me e a Scalfaro la qualifica di extraterrestri, legando questo giudizio a una nostra presunta debolezza nei confronti di un’azione che, secondo lui, non era soltanto giudiziaria, ma politico-giudiziaria».
Amato chiuse i suoi conti con la memoria di Craxi in una lunga intervista a Giancarlo Bosetti pubblicata da «Reset» all’inizio di settembre: «Ho sempre continuato a rispettarlo, anche dopo la sua disgrazia politica … Considero immorale attaccare una persona con cui ho avuto quel tipo di legame. Posso comportarmi così perché il mio rapporto con Craxi è stato sempre pulito … Ho taciuto anche quando lui … mandava in giro fax contenenti allusioni su di me che assolutamente non meritavo; no, proprio non meritavo. E lui lo sapeva bene…». A palazzo Chigi, Amato mi disse: «Siamo rimasti soli l’uno dell’altro».
La luna di miele di Amato con la propria maggioranza durò appena cinque settimane. Subito dopo aver accettato la sua designazione al posto di D’Alema, Veltroni, Castagnetti e Parisi (per conto di Prodi) cominciarono a cercare l’uomo destinato a sostituirlo come candidato premier alle elezioni del 2001. E, quel che è peggio, lo fecero sapere ai giornali. Il primo candidato fu Giovanni Bazoli. Esponente autorevole della grande borghesia cattolica bresciana, aveva salvato il Banco ambrosiano dopo il fallimento e la morte di Roberto Calvi, e ora presiedeva Banca Intesa. Castagnetti l’aveva interpellato per sostituire D’Alema, ma lui aveva declinato l’invito, come aveva fatto mesi prima con Nino Andreatta che lo esortava a entrare in politica. Ma poiché le sollecitazioni continuarono, Bazoli fu costretto a rendere pubblico il suo rifiuto il 14 giugno in un’intervista a Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera».
In sella da poco più di un mese, Amato non gradì che i suoi «amici» gli stessero già scavando la fossa. Passò appena una settimana e il «Sole-24 Ore», quotidiano di Confindustria, fece tra gli altri il nome di Francesco Rutelli, sindaco di Roma, che stava gestendo i preparativi per il Giubileo del 2000 allo scopo di consolidare la propria immagine politica super partes, esattamente come avrebbe fatto quattro anni dopo Veltroni. Rutelli manifestò ufficialmente le proprie aspirazioni il giorno di Ferragosto con un’intervista al «Corriere della Sera» (Io ho le idee per non rincorrere il Polo) e le comunicò nove giorni dopo ad Amato durante una colazione a palazzo Chigi. «Alla mia età» disse il padrone di casa «un eventuale insuccesso pesa meno…» «Giuliano,» ribatté l’altro «se è necessario, uno deve assumersi il rischio…» Quando dissi al presidente del Consiglio che era stato proprio lui a lanciare Rutelli durante quella colazione, Amato mi rispose: «Era un candidato in nero, l’ho fatto emergere».
Alle feste di partito di settembre, la popolarità di Rutelli crebbe, i sondaggi lo dipingevano come un uomo «nuovo», mentre Amato era percepito come «vecchio». Come abbiamo visto, il presidente del Consiglio tentò di chiudere i conti con il passato con la calibratissima intervista a «Reset». Non servì. (Tra l’altro, il suo handicap più grave era l’amicizia con D’Alema.) Eppure, ancora all’inizio di settembre, quando incontrai Giovanni Agnelli al forum Ambrosetti di Cernobbio e gli dissi che Rutelli sarebbe stato il candidato del centrosinistra, l’Avvocato stentò a credermi. Amato aveva parecchi, autorevoli estimatori.
Con il passare dei giorni, la situazione era diventata così imbarazzante che Amato minacciò più volte le dimissioni, e Ciampi fece sapere che avrebbe dovuto sciogliere le Camere senza assegnare nuovi incarichi. Finché, poco prima della puntata del 25 settembre 2000, sia i suoi collaboratori sia la moglie Diana non lo invitarono a chiudere drasticamente la questione.